In Calabria c’è un valore che è difficilmente esportabile, difficilmente comunicabile, che molti e – io stessa per diverso periodo – non ritengono tale: il silenzio. Il Calabrese, differentemente dall’immaginario comune, è uomo di montagna. Della natura irta e scomoda è una specie, e come tutte le altre specie animali, tace. Tace per tendere le orecchie ai movimenti fra le frasche, tace per percepire i cambiamenti del tempo, per ascoltare il vento che cambia, per annusare la pioggia che arriva, per trovare la forza di continuare a lavorare sotto il sole che cuoce.
Il Calabrese non parla. E non lo fa perché non è capace di farlo, il linguaggio rimane sempre suo appannaggio mistico e perciò poco abusato per non sperperarne le capacità magiche. Non parla perché parlando si disturba il mondo, si confondono le acque, i sentimenti, le storie, le vite. La parola è performativa, parlando si fa uno sgarro alla natura, che nei suoi linguaggi si esprime, parlando si ferisce, si incrinano i destini.
E questo silenzio, che il Calabrese si porta dietro come fosse una pianta estirpata dalla sua terra, non è un vuoto da colmare. È materia pura, è sostanza con cui si riempiono gli spazi, è la modalità di sopravvivere in un mondo in cui si è alzato il volume dei chiacchiericci, in cui si è alzato il volume dell’uomo, e si è abbassato quello della natura. Al contempo è vuoto dentro l’anima, è spazio lasciato per essere riempito dalla bellezza del creato dell’universo, di una margherita che spunta sul prato, un’ape che ronza sui prati, una ciliegia rossa che spunta tra i rami.
Ci ho messo degli anni a rivendicare questo silenzio, che figlia di questa terra, mi porto dentro da sempre. A spiegarmi il vuoto dell’anima quando sentivo la mancanza delle valli, del mare, gioiello di una regione che in un lembo di terra riesce ad essere vetta e marina, che si inerpica su nel cielo e srotola le sue acque marine sotto le lune piene. A dare un nome a quella necessità di silenzio, a quel bisogno di riempiere le stanze di silenzio, abbassare il volume dei telefoni, delle televisioni, fuggire dalle intermittenze ondivaghe di wi-fi, alle diavolerie che ci siamo inventati.
Per altrettanti anni mi sono sforzata di combatterlo questo silenzio, che essendo materia, negli anni dell’adolescenza impedisce la libera espressione di un’identità dannata che cerca approvazione, che cerca di scuotere con il rumore, che cerca svago e divertimento. Anche lì, non ho mai dato nome a quella melma che attenuava le onde sonore della mia fioca ribellione, a quelle sabbie mobili che vanificavano ogni sforzo di movimento, di contrapposizione.
Di ritorno in Calabria, quest’ennesima volta, mi sembra di aver avuto un’intuizione. Dopo un viaggio che come tutti sembra interminabile in attesa che arrivi quella porzione di penisola in cui il treno si tuffa nello stivale della Calabria e compaia il mare, che non vedevi da mesi, che non sarà mai bello come gli altri mari, perché non emanerà quello stesso silenzio di cui sei fatta anche tu, che è lo stesso che riempie il vuoto dentro.
E questa è l’intuizione che tradurrò in parole scritte, in ossequio a quel silenzio a cui sono devota. Parole mute, che sono state la mia prima libertà di espressione, il mio primo atto di resistenza passiva ad un silenzio che ritenevo limitante.
Per tanti anni ho creduto che quella specie indurita di fusto di albero che erano i Calabresi – e per Calabresi intendo per metonimia la scarsa rappresentanza dei miei familiari – fossero dei ceppi bruciati al sole, incapaci di esprimere le loro emozioni, di accogliere le mie, che fossero resistenti al cambiamento e visceralmente conservatori. Col tempo non mi sono scoperta troppo diversa da loro. Ho imparato così ad ascoltare come un animale da caccia i mutamenti di questa terra, a percepirne i minimi cambiamenti, ad ascoltarne le variazioni di tono, ad osservare i gesti, l’incurvarsi di una ruga, il mutare del respiro. E’ una pratica estenuante, l’osservazione, ma è anche la più alta forma di conoscenza.
Osservando ho notato le più piccole mutazioni che all’occhio più esperto risultano immani stravolgimenti planetari. Osservati dall’esterno, noi Calabresi, sembriamo pachidermi bifolchi, che in silenzio giacciono in un nulla esistenziale. Al microscopio siamo esseri umilmente potenti, capaci di gesti rivoluzionari d’amore e di un senso superiore dell’ordine delle cose. In ottemperanza a quell’ordine, tacciamo.
E non chiamateci omertosi. Un calabrese si muoverà in ossequio alle leggi della sua natura, limitanti perché imbevono il tessuto sociale in cui si muove, e tacerà, almeno finché non avrà trovato la maniera di esprimersi, in una declinazione ossequiosa di quel silenzio che lo riempie e lo svuota allo stesso tempo. Non direte di un magistrato che è omertoso nel tentativo di rendere legale l’indizio che già conosce. La legge lo costringe al silenzio finché non avrà trovato il modo di esprimersi senza sovvertire l’ordine costituzionale.
Esattamente per questa ragione, la sua apparente immobilità, che è istintivamente tacciata di intrinseca e genetica improbità, è molto più probabilmente espressione di una pazienza ancestrale, che forse sì, non è più dell’uomo, ma che attende soltanto di trovare un canale per mostrare i suoi rivoluzionari effetti.
Convertire quel silenzio in emozioni, parole, danze, ingranaggi, progetti, attività potrebbe essere la nostra più grande rivoluzione. Estirpare la radice frustrata che languisce dentro, malavitosa, e permettere di dar sfogo all’infinito che abbiamo dentro, ad inventarle una nuova libertà.
Calvino così scriveva di Berenice, una delle città nascoste, e l’auspicio è che avvenga la stessa cosa nella nostra Calabria silenziosa:
Devo attrarre la tua attenzione su una qualità intrinseca di questa città ingiusta […]: ed è il possibile risveglio – come un concitato aprirsi di finestre- d’un latente amore per il giusto, non sottoposto a regole, capace di ricomporre una città più giusta ancor di quanto non fosse prima di diventare recipiente dell’ingiustizia.